Essenze

2023  

Attività svolte in mezzo alla natura, che si trasformano in esperienze di contatto e connessione con la propria essenza: questa è la tematica che si propone di esplorare questa serie di podcast – progetto tutt’ora in corso.

Ogni episodio è un’intervista, un racconto e un’immersione nell’attività. Attraverso i suoni e i silenzi che la compongono, entriamo nella sua dimensione e prendiamo una direzione sempre più introspettiva.
Consiglio infatti l’ascolto in un contesto di tranquillità, e magari ad occhi chiusi.

Grazie alle amiche ed amici che hanno acconsentito a farsi intervistare, raccontarsi ed esporsi. 🙏
(e a quelle/i che lo faranno in futuro, ma ancora non lo sanno…)

Activities carried out in nature, that turn themselves into experiences of contact and connection with one’s own essence: that’s the subject that this series of podcast – still ongoing – intends to explore.

Each episode is an interview, a story and a dive into the activity. Through the sounds and silences that make it up, we enter its dimension and take an increasingly introspective direction.
That’s why I recommend listening to it in a quiet moment, possibly with closed eyes.

Thanks to my friends who accepted to be interviewed, to tell and to expose themselves. 🙏
(and to those who will do the same in future, but still don’t know that…)

Attività svolte in mezzo alla natura, che si trasformano in esperienze di contatto e connessione con la propria essenza: questa è la tematica che si propone di esplorare questa serie di podcast – progetto tutt’ora in corso.

Ogni episodio è un’intervista, un racconto e un’immersione nell’attività. Attraverso i suoni e i silenzi che la compongono, entriamo nella sua dimensione e prendiamo una direzione sempre più introspettiva.
Consiglio infatti l’ascolto in un contesto di tranquillità, e magari ad occhi chiusi.

Grazie alle amiche ed amici che hanno acconsentito a farsi intervistare, raccontarsi ed esporsi. 🙏
(e a quelle/i che lo faranno in futuro, ma ancora non lo sanno…)

 italiano – [22:12]
2023 Link copiato! Link copied! Link copiato! share share share
Se il mondo è il risultato degli occhi con cui lo si guarda, conviene avere quelli di Monia, capaci di trasformare uno snobbato laghetto di provincia in un paradiso di pace e condivisione.
Al ritmo dell’acqua solcata dai remi, e delle sensazioni che affiorano man mano che si avanza verso il centro del lago, Monia ci racconta di barche che parlano, prospettive che si cappottano e sport che traghettano verso la salvezza.
If the world is shaped by the eyes that look at it, better have those of Monia, able to transform a snubbed little lake into a place of peace and sharing.
Following the rhythm of the water cut through the oars, and the sensations that surface as we move forward towards the middle of the lake, Monia tells us about boats that speak, perspectives that roll over and sports that lead towards salvation.
Se il mondo è il risultato degli occhi con cui lo si guarda, conviene avere quelli di Monia, capaci di trasformare uno snobbato laghetto di provincia in un paradiso di pace e condivisione.
Al ritmo dell’acqua solcata dai remi, e delle sensazioni che affiorano man mano che si avanza verso il centro del lago, Monia ci racconta di barche che parlano, prospettive che si cappottano e sport che traghettano verso la salvezza.
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Mi ricordo la gente di San Pietro, del paese, difficilmente andava al lago. Mia nonna, la mia famiglia, non volevano. Sempre visto un po’ come una pozza, sempre visto un po’ come una cosa sporca, un acquitrino. Poi era pericoloso, c’era il mostro del lago, c’erano i mulinelli che ti tiravano sotto.
E non sanno quanto invece si sono persi.

Siamo davanti al Lago di Piano, per gli amici “il laghetto”, un piccolo specchio d’acqua, in provincia di Como, avvolto dalle montagne, e solcato da un puntino… Che sarebbe una barchetta a remi… Che adesso è lì, e lo sta attraversando.

Essere dentro, là, in mezzo al lago… Ti sembra di essere… Che ne so, in un paradiso da sola. Sei nel silenzio, senti solo lei che ti parla e basta. Io e la barca ci parliamo senza parlare, e io sento solo lei.
Splash… splash…

Sono Monia, sono una piccolina donna felice. E faccio canottaggio, da non moltissimi anni però mi piace tantissimo.
Ma con quante T si scrive canottaggio?
Canottaggio. Con due T.
Okay, ti sei preparata! Allora cominciamo.


Dodici… Tredici… Quattordici… Quindici, okay… Uh!

È stupendo o no, questo lago?
Sì, c’è una pace, è una meraviglia…
Ciao!
Ciao.
Voi vi conoscete?
No. Piacere, Laura.
Io sono Katia, ciao. Con l’ultimo fiato che mi è rimasto.

Allora, quando dicevo “cominciamo”…

Ho un po’ di paura.
No, tanto prima provi solo a star seduta.
Okay.

…intendevo letteralmente. Perché… Nel senso… Comincio io a provare a remare, in doppia… Per raccontare meglio questa storia.

Aspetta che ti tengo io la barca. Mettiti comoda, adesso tira su l’altro piede. Il trucco è mai mollare i remi.

Okay, questa barca praticamente è una roba lunghissima, sottilissima e precarissima, nel suo equilibrio.

Ecco, sulla barca, anche solo il girare la testa da una parte all’altra manda fuori equilibrio.

Ma tu com’è che hai scoperto, che ti sei avvicinata a questa attività?

Io, ti dico, andavo spesso alla Rivetta. e c’era questo gruppo di canottieri di Menaggio che portava su i ragazzini d’estate. E mi piaceva, eh. Li guardavo, li vedevo, però ho sempre pensato che fosse una cosa – appunto, uno sport – da iniziare ragazzi.
Sono pochi quelli che a 40 e passa anni, a 45-47, decidono: “Cia’ che provo canottaggio”.

Poi invece parlando con Adalberto, mi dice: “Ma no, ma dai, vieni giù, adesso abbiamo fatto anche noi il gruppetto dei vecchietti, dei master. Siamo quattro genitori che, invece di stare lì ad aspettare i ragazzi che finiscono l’allenamento, abbiamo cominciato a scendere in barca e c’abbiamo provato”.
Faccio: “Eh sì dai Adalberto, mi piacerebbe, mi piacerebbe tanto”. Mi dice: “Guarda, a settembre l’anno prossimo facciamo sempre il mese di prova per chi vuol cominciare dei master”, e… È morta lì. E poi a settembre mi è arrivata la locandina, mi ha girato la locandina che c’era questo mese di prova, sono sparata giù subito la prima serata.
E io volevo fare, però non ne sapevo niente di canottaggio. Perché se avessi saputo che bisognava essere grandi, lunghi non mi sarei presentata.

O magari sì… Per sfida. Ecco, perché prima hai specificato di essere “Monia, piccola donna”. Cioè, hai detto “piccolina donna… felice”, no?
Quindi sei felice? Sei stata felice non appena hai provato il canottaggio?


Io avevo già capito subito che era per me. Sì sì sì, era una cosa che mi piaceva tantissimo.

Balla un po’ ma non si ribalta.
Balla molto. Aiuto!
Prova a fare questo lavoro con i polsi, così senti come trovi l’equilibrio.
Allora. Avanti con le braccia…
Gira giù i polsi…
Allora, avanti con le braccia…
Gira giù i polsi.
In giù. Così.
E tira. Okay.

Oh, ma tu ci sei riuscita la prima volta? A fare questa roba coi polsi?

Non sono uscita subito in acqua a remare, perché abbiamo cominciato d’inverno, era buio. Ho cominciato a fare palestra e dentro nella vasca, a vogatore.
La prima volta che sono uscita, sono uscita in acqua con Daniel. E so che lui mi diceva: “Ma gira sti remi”. “Ma come gira i remi?”. Perché in vasca i remi non si girano, è differente la remata.
“Devi girare i remi”, e non capivo cosa voleva dire girare ‘sti remi… Io andavo così, pa, pa, pa, e mi diceva che bisognava girare i remi .

E la prima volta che siamo usciti da soli, in singolo, io sono uscita, non ho cappottato; sono rientrata al mio molo, sto rientrando al molo, c’è Michele sopra il muro che mi dice: “Cia’ cia’ che facciamo una foto”. Sono andata in panico, e si vede lì… patapum. Ho cappottato, l’hanno messo su Paperissima, sul YouTube dei canottieri, ha avuto più di 1500 visioni su tutti i video.


Tanto equilibrio, eh.
Tantissimo.
Tantissimo, sì.

Sì, nel senso, la sensazione della bellezza di andare le prime volte non ce l’hai, perché c’è la tensione, la paura di ribaltare, un sacco di cose. Però dopo quando un pochettino cominci a capire come funziona, riesci ad apprezzare di più… lo splash.
Cos’è che apprezzi?
Lo splash!
Lo splash.

Ho capito subito che l’acqua era il mio ambiente. E non avevo la paura. Non mi ha mai fatto paura neanche cappottare, dicevo: se sbaglio, male che succeda cappotto! Cioè, non era da dire “oh mamma mia, se sbaglio cappotto”; io dicevo “be’, mal che vada cappotto”.
E di conseguenza questo non aver paura mi ha portato a cappottare tante volte, però… Non ero su con la paura sulla barca. E ho cominciato così, e da lì non ho più smesso.


A volte remi in barca singola, ma con altre singole accanto, e altre volte sei in doppia, o in barca da quattro. C’è una componente umana, di condivisione, abbastanza importante, no? Infatti ad ascoltarvi a distanza si sentono urla, risate, prese in giro… Uh, se vi prendete in giro..!

Se mi viene vicino un doppio o un singolo in allenamento, io ho che la testa non riesce a stare dietro. Cioè per me è sempre gara.

Lei è stra-allenata e quindi sta cercando di farmi fuori!
Eheh e ci sta riuscendo.
Sì sì. Risolve così secondo me.

Ma non ti molla un attimo quella lì! È come l’attack quella lì. Porca vacca oh.

Per me è sempre gara, anche durante l’allenamento. Io e Marco anche quando usciamo in singolo. La maggior parte delle volte poi ci ritroviamo, e quando vedo che lui allunga io alzo i colpi. Dico: “Marcione non puoi sorpassarmi, perché io sono piccola”; è logico che lui è più forte di me! Ci do dentro di brutto, di brutto, e poi lui si accorge, e poi arriviamo alla fine e ridiamo come due scemi.

Ah, okay, siete un pelino competitivi..!
E cosa significa invece condividere la stessa barca, il ritmo, le difficoltà di equilibrio con un’altra persona?


Quando remi in due su una barca c’è tanto feeling, parliamo tantissimo e ci capiamo al volo. Se tu sei sulla barca, se o io sono nervoso, o magari sono per aria, oppure a lui è successo qualcosa sul lavoro, lo senti. Lo capisci subito dalla remata, lo capisci subito, senza parlare, senza dir niente capisci se gli è successo qualcosa a lui o lui capisce se io ho qualcosa.

C’è anche questa condivisione sulla barca. Se lui, se quello davanti, tira, tu devi stargli dietro. Lui aumenta, io aumento, lui rallenta, io rallento, lui tira di brutto, io devo tirare di brutto. Questa sensazione non di due unità, io sono la sua prolunga.

Sei un completamento della persona che sta davanti, insomma. Certo, se la persona davanti sa remare, no? Infatti anche noi due, adesso abbiamo provato ad andare insieme su una barca doppia, però… Io non è che sia molto , prolungabile, completabile.
O forse sì, nel senso che devi completare tutto quello che mi manca.

Poi si chiacchiera, si condivide il momento, è una cosa bellissima.
Però c’è una componente che a me affascina ancora di più, ed è la remata in singola. E credo che sia un’esperienza completamente diversa; che tira fuori da questo sport la capacità di portarti in silenzio, in connessione con te stessa, con l’ambiente circostante. Ti succede?


Sì, sì, sì. Mi piace uscire in singola, fare allenamenti, remare, perché sei tu. Sei tu da sola, con la tua barchetta, sei nel silenzio, senti solo… Il silenzio; ma neanche, nel senso… Lei che ti parla e basta.

Io la chiamo “la mia Ciccina”.

Ma… Ti ricordi quando è successo che “Ciccina” ha iniziato a parlarti la prima volta?

Allora mi viene in mente il mio primo cappottamento al laghetto.
Comincio a remare. Comincio a fare l’allenamento, sbaglio la remata, ondeggio; la barca si cappotta in mezzo al lago.
Resto un po’ sotto, ma una cosa di frazione di secondo, riesco a tirare la corda, liberare; un piede mi esce, l’altro esce con la scarpa, non riesco a toglierla.
Guardo su, vedo lo scalmo, vedo la luce, la barca è lì. Una delle cose quando cappotti è mai mollare la barca. La barca è la tua salvezza, perché in qualsiasi caso lei è lì. È piccola, è stretta, è maneggevole, le puoi saltare su; lei è lì, e ti aiuta, eh.
Salgo, mi metto a cavalcioni sulla mia barca. La giro, faccio per prendere i remi, uno mi viene su l’altro no. Riprovo, la rigiro, non riesco a tirar su i remi.
I miei compagni sono venuti vicino con la barca. Li vedo lì, che uno mi dice: “Fai così, fai così, no tira su lì, no, tira su di là”, “Ma tutto a posto, tutto a posto?”, “Sì, tutto a posto”. Alla fine però siamo io e la mia barchetta. Allora decido di prenderla sulla punta, tenerla sotto l’ascella e nuotare fino arrivare a riva.

Era come portare a riva, non dico una persona perché è troppo esagerato, però un qualcosa che dovevo salvare… dovevamo salvarci insieme, dovevamo venire fuori insieme.

Ce l’abbiamo fatta, io e lei, eh. Ce l’abbiamo fatta, siamo arrivate a riva. È stata dura, però è stato proprio quello, l’unica soluzione era non mollarla, perché lei non avrebbe mollato me, io non mollavo lei in mezzo al lago.
E quello è stato proprio il feeling con la barca.

È come un rafforzare il tuo io. Rafforzare il tuo io è anche quello, perché alla fine sei poi solo tu.


Io ho cominciato nel 2017. È stato un anno e mezzo dopo che mi sono separata. Cominciava ad arrivare anche un po’ di solitudine, e ho trovato anche nel canottaggio quello che mi ha riempito la vita. Io ero impegnata, io avevo questa cosa che mi piaceva tantissimo, e ogni momento per me era importante.
Facevo i miei quattro allenamenti, e se poi c’era qualcuno che aveva bisogno di andare a remare, ma andavo lo stesso!

Poi io quando inizio una cosa, un’attività che mi piace, difficilmente smetto. Non ho mai perso un allenamento – anzi se potevo farne di più ne facevo di più; non chiedete a Monia se vuole uscire, se si può uscire, perché lei ti dice di sì anche se ci sono le onde così…

Ho avuto una discussione quest’anno con i miei mister, perché ai campionati italiani anche lì avevamo preparato un quattro, e all’ultimo due si sono ritirati. E lì mi sono molto arrabbiata, arrabbiata con la società, arrabbiata con i mister, e un mister mi ha risposto: “Monia, non per tutti il canottaggio è tutto nella vita”.
E questo mi ha fatto riflettere che effettivamente per me il canottaggio era tutto. Tutto. Era riempirmi i miei momenti vuoti, era il mio condividere con qualcuno un qualcosa, era… La mia energia che ho dentro, lì la buttavo fuori. La butto fuori. La butto.

Mi ha salvato in questi anni. Mi ha salvato dalla mia solitudine.


Bene, torniamo in mezzo al laghetto.

Prova a poggiarli giù.
Allora.
Tienili piatti, e appoggiati.
Okay… Ah, wow. Che colori, suoni.

La prima cosa che dici è: “Come sono fortunata a riuscire a svolgere uno sport in un ambiente così”.
Essere dentro e in mezzo all’acqua, che ti vedi tutto il verde delle montagne che arriva, e alla sera ti vedi là il tramonto, l’ultimo rosso del tramonto, e dici: “Che spettacolo è? Ma che spettacolo è?”.


Se vuoi attracchiamo pure.
Dimmi tu, eh.
Io volevo provare soprattutto la sensazione di essere lì ferma in mezzo al lago, ed è stato bellissimo.

Allora, se vuoi scendere devi slacciare i piedi. Io tengo la barca, non preoccuparti.
Slacciàti.
Allora. Tieni con la mano destra i due remi insieme, se ce la fai.
Sì.
E cerchi di saltar giù.


E… piedi per terra!
Certo, non è mai facile destreggiarsi, la prima volta, con una nuova forma di equilibrio… Però, quest’esperienza, questa sensazione di pace e connessione totale in mezzo al lago, devo ammettere che ti dà la motivazione per voler continuare a provarci, continuare a destreggiarti, tentare di tornare lì a risentire tutto ciò.

E tu come farai i prossimi mesi, adesso che l’autunno è alle porte?


Ci è capitato di uscire con la neve, eh. Con i guanti, la berretta, e tutto, sì, eh. Era la mattina prestissimo, c’era questa nebbia sopra il lago, nebbia nebbia… E cadevano questi fiocchini di neve, leggeri leggeri.
Nessuno in acqua, quel scuro-chiaro, la nebbia, questa neve che scende piano piano; noi due che dentro di noi capivamo che stavamo facendo una gran cavolata, ma che ci piaceva tantissimo… È molto bello, anche lì, sono sensazioni bellissime.


Grazie mille Monia.
Grazie Laura.
Viva lo splash.
Viva lo spash.

Perché a volte i laghi con mostri e mulinelli… nascondono ben altre sorprese.
 español – [22:09]
2022 Link copiato! Link copied! Link copiato! share share share
Para ayudar a su hermano a recuperarse de un accidente, Mariano decide subir hasta los casi 7.000 metros del cerro Aconcagua, y, paso a paso, nos guía por un mundo de ríos, desiertos, piedras, viento, respiración lenta y calor humano.
Lo que no puede imaginar es el cambio radical que producirá en él esta aventura.
To help his brother to recover from an accident, Mariano decides to climb the almost 7.000 meters of mount Aconcagua, and, step after step, guides us through a world of rivers, deserts, stones, wind and human warmth.
What he cannot imagine is the radical change that this adventure will bring on him.
Per aiutare suo fratello a riprendersi da un incidente, Mariano decide di scalare i quasi 7.000 metri del monte Aconcagua, e, passo dopo passo, ci guida per un mondo di fiumi, deserti, pietre, vento, respiro lento e calore umano.
Quello che non può immaginare è il cambio radicale che produrrà in lui questa avventura.
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Lo que más me acuerdo es el atardecer dando sobre la cima, tiñéndola totalmente de dorado. Me pareció una de las cosas más hermosas que he visto.

Argentina, 21 de diciembre de 2017. Dos hombres pisan las piedras de una tierra muy árida. Uno, más adelante, fija el horizonte… el otro se acerca lentamente. Muy lentamente. Se mueven despacio, respiran despacio… porque estamos a seismil novecientos sesenta y dos metros de altura. Estamos en la cumbre del Aconcagua.

El Aconcagua… Qué es el Aconcagua?

Es un pedazo de roca. El punto más alto de la cordillera de los Andes, que básicamente es el choque de dos plataforma marítimas.

Qué pasa cuando un accidente interfere con un camino feliz? Con el camino feliz de una persona querida? Y… si tenemos el mapa, para hacerla volver a ese sendero?
En esta historia: como una simple ayuda se puede transformar en un gran proyecto, y producir un cambio que afecta profundamente… vos, el ayudante… no?


Un cambio de vida, un cambio de paradigma.

Yo soy Mariano José Griffouliere, algunos me dicen “el pelado”, otros me dicen “Mariano”… y en el año 2017 me preparé para subir a el Aconcagua. Logré cumbre junto con mi hermano Andrés Griffouliere.


Aunque el Aconcagua es una montaña que no presenta mucha dificultad a un nivel técnico, está muy muy lejos de ser el trekking del domingo, no? Entonces… De dónde sale todo esto? Como empieza tu relación con la montaña?

Me acuerdo de ir de campamento junto con mi papá, mis tres hermanos, y todo un pelotón de primos, tíos, amigos de mi viejo con sus hijos y demás, yéndonos en el medio de la montaña, y tener esta conexión, no? Jugar en los ríos, cocinar al aire libre, desde chico tuvimos mucho eso, era como una via de escape para todos de alguna manera. Y más adelante como que en mi adolescencia se perdió.
Después mi hermano se empezó a vincular nuevamente con la montaña, el Andrés. Mi hermano es profesor de historia. Y el ya había dejado su profesión, para profesar la montaña digamos, para dedicarse a eso.

Profesar la montaña, es decir, en su caso, trabajar como guía en el Aconcagua. Y le encanta, no? Lleva la gente hasta la cumbre, a veces cargándose con cuarenta kilos, y vive durante meses al aire libre, en un mundo de carpas, piedras, poco oxígeno…
Hasta que algo… se pone en el medio.


Estábamos en febrero de 2017. Yo me estaba juntando con mis amigos a jugar al fútbol. Estaba jugando un partido de fútbol, termina el partido, voy a ver el celular y me encuentro como con 50 llamadas perdidas, mensajes, mixto de toda la familia, diciendo que mi hermano el Andrés habia tenido un accidente en el Aconcagua, en el cerro. Y que, bueno, lo estaban bajando de emergencia, no? Me fui, me subí al auto y me fui derecho al hospital.
Resulta que había tenido una quemadura bastante grave en la mano, con bencina. Y el doctor en su momento fue bastante duro, le dijo “mirá, muy probablemente te tenés que buscar otra cosa para dedicarte en tu vida. Porque tener una mano inútil no es muy bueno en la altura y demás. Y más sin sentir frío ni calor en una extremidad. Como que la podes perder totalmente.”.

Puta, que mala leche que haya encontrado lo que le gusta hacer, y por un accidente bastante choto, bastante boludo, pierda la oportunidad de el seguir dedicándose a eso, no?

Se te debe caer el mundo encima, me imagino. Qué posibilidades tenía en ese momento?

Le tenían que sacar parte de su carne digamos en la pierna, y ponérselo en la mano. El proceso de recuperación era largo, era doloroso. Dependía mucho de que, que tanto se hubiera quemado, si tenía los tendones o no comprometidos; si la mano le iba a quedar como una garra digamos, sin poder moverla.

Pero… también…

Era una cuestión de actitud.

Una cuestión de mover la mano todo el tiempo despues de la operación, aunque doliera muchísimo, para evitar la cicatrización en una posición fija. Entonces era cuestión de creer, cuestión de no rendirse.

Con mi viejo nos miramos y dijimos “tenemos que intentar que el Andrés vuelva lo más antes posible al cerro, no? Pongámosle un objetivo. Intentamos subirlo nosotros, y que él nos acompañe en todo el proceso.”

Yo en ese momento llevaba una vida sumamente sedentaria, yo trabajaba 14 horas diarias en frente de la computadora, pesaba 20 kilos más de lo que tendría que haber pesado. El cambio radical que viví, de alguna manera, fue increíble.


Así… Decisión tomada! Solo hay que apagar la compu, ponerse en buen estado y subir hasta casi sietemil metros..! Y, cómo empezas a prepararte para un objetivo tan grande?

Si vos querés hacer cerros y querés subir cerros, andá y subí cerros. Esa es la mejor actividad que podés hacer para no solamente estar bien físicamente sino entender como manejarte en diferente situaciones cuando estás haciendo la actividad. Si vos vas al cerro y no sabés como comportarte en el cerro tenes allí un déficit.
Nosotros con mi viejo y mi hermano empezamos un entrenamiento que era básicamente gimnasio, trotábamos o andábamos en bicicleta. Todo nos llevaba más o menos dos horas por día. Y después todos los fines de semana nos íbamos. Empezamos de menos a más, haciendo cerros muy cortitos y haciendo cerros cada vez más altos.

Básicamente un año entero dedicado al entrenamiento… dos horas… todos los días..!

Podríamos haberlo tomado de una manera menos obsesiva, siendo hijos de mi viejo es difícil.

El obstáculo más dificil es la constancia. Es no abandonar. Despuás la motivacion se mantiene en grupo. “Vamos por adelante que lo sacamos adelante”. Mi hermano nos entrenó para poder disfrutar el cerro.
Y de a poco yendo, yendo cada vez mas a los cerros, me fui enamorando nuevamente de la actividad, y me encontré a mi mismo allí.


Día uno. Un cartel dice: Bienvenidos, Parque Provincial Aconcagua.

Empezamos a caminar, y nos rodea vegetación, nos rodean pájaros dando vueltas por allí, muy chiquitos, que se te acercan cada vez que te frenás, se llena de pajaritos alrededor de todo, buscando esa miguita de pan que se te puede llegar a caer del sanguche que te estás comiendo porque lo necesitás.
A medida que vas avanzando vas cruzando ríos, puentes, ríos secos. El agua corriendo, el ruido de un río es muy marcado. Y de repente el camino se empieza a tornar cada vez mas desértico, si bien continúa este hilo de agua que te va llevando hacia arriba. Se empieza a perder toda vegetación y todo animal que puedas llegar a ver, y las piedras se van haciendo de alguna manera cada vez más grandes, con un río que quiebra la tierra en dos.
El sonido de los pies caminando, pisando piedras más que nada. Una piedra con la otra frotándose entre sí.
El sol pega muy fuerte, no hay sombra, no hay un árbol que te cubra, no hay vegetación ya que te ampare del sol. También a mayor altura el sol se siente mucho más fuerte. El viento. Las mulas te van pasando cargadas con cosas, super rápido, entonces tenés que tener cuidado que no te atropellen.

Y finalmente llegar a un campamento que está básicamente arriba de un glaciar, con la montaña del Aconcagua en tu derecha. Tenés el campamento base, que es básicamente un pueblo a 4300 metros de altura, son todos domos y carpas. Es como un pequeño país aparte en donde se manejan muchísimos idiomas, muchísimos tipos de monedas, porque podés llegar a tener el dolar, el peso, el euro, incluso hasta el trueque, “te pago con estas botas y me llevás para arriba”.
Y después tenés los campamentos de altura. Entonces apenas llegás te metés al domo, hidratas constantemente, y mientras tanto te ambientas un poquito a la altura, salís, armás carpa, y te volvés a meter al domo. Adentro de la carpa se conversa; obviamente que estás preguntando como va a ser el día de mañana. Alguien siempre está haciendo algo de comer, o calentando comida, o descongelando nieve para poder hacer un tecito caliente. Si vas de cuerpo básicamente hacés adentro de una bolsa y todos los restos los metes adentro de una bolsa que luego van a un elemento que le llaman “el cacatubo”. Y si hacés pis durante la noche, para no tener que salir de la carpa, hacés adentro de una botella. Y esa botella la cerrás muy bien y la ponés adentro de tu bolsa para dormir, para que te caliente.
Se conversa mucho, se está también mucho tiempo en silencio, en una conversación interna más que nada.
Comés y te vas a dormir, no queda mucho más que eso.

Hola, buen día!

Te levantás a la mañana, desayuno, siempre mucha agua, y… a empezar a caminar de nuevo.
A medida que vas subiendo te vas chequeando a vos mismo físicamente, “como me siento”, si me estoy sintiendo bien en la altura. Estás controlando todo. Todo aquello que hacés en la altura es con lentitud, lo tenés que hacer tranquilo y lento.
Intentar… verdaderamente intentar disfrutar el momento presente. Ya llegue hacia la cumbre o no, yo voy caminando, y estoy viendo cada piedra, sacando un montón de fotos, charlando con mi hermano, disfrutando del campamento y de los atardeceres.
Me sentia que podía lograrlo, no?

Y… Después… Hay un momento en el cual ya no quedan muchas más piedras, muchos más pasos…?

Logré cumbre junto con mi hermano.
Las sensaciones son mixtas.
Un proceso sumamente largo para poder llegar ahí, no? Un año de cuidado en tus comidas, en cuanto tomás, en el entrenamiento físico, en una constancia de dejar por ahí muchas cosas o una vida social… Por estar yendo al cerro, no? Y todos estos sacrificios por alguna manera se ven reflejados en ese momento.
Llegar fue como una extrema alegría, me abracé con mi hermano. Extrema alegría.
Cuando me lo preguntaron por primera vez, un amigo de mi hermano me preguntó “bueno, y que sentís?”, le respondí que de alguna manera sentía que con iniciativa, y con cierta perseverancia, podía lograr lo que quisiera en mi vida. Me encontré con un nuevo mundo, un mundo al aire libre, con gente que vive de una manera diferente, que se relaciona de una manera diferente, mucho más conectada con la naturaleza.
Me describo a mi mismo una persona que mucho tiempo se mató a si misma, que fumaba mucho, que tomaba mucho, que se drogaba mucho, y que… desde ese cambio de paradigma no solamente me cuido a mi mismo, si no que cuido el ambiente, y me empecé a relacionar con gente mucho más sana.
Obviamente hubo un cambio en mi sumamente profundo.


Nunca hubiera podido imaginarse una transformación así el Mariano de veinte kilos más, trabajando en frente de la compu. Y creo que la pregunta que falta ahora, que todos queremos saber, es: como está el Andrés? Como está su mano, despues de un año de sacrificios así?

Mi hermano tiene la mano perfecta. Le decían “vos tenés que hacer ejercicio y mover la mano así, así y así, todo el día, una vez por hora”, y vos lo veías a mi hermano moviendo la mano por todo el tiempo. Si él la dejaba quieta y no la movía, la cicatrización iba a ser en esa posición, y jamás iba a poder moverla más. Pero al moverla, cortaba de alguna manera toda la carne que le habían puesto, entonces dolía. Y vos lo veías a él, moviendo la mano con una lágrima cayéndole por la mejilla del dolor. Pero al día de hoy la tiene perfecta.

Fantástico, y él trabaja todavía como guía en el Aconcagua, entonces sigue en este camino que le hace muy bien. Ya pasaron cinco años de estos eventos. Cuando, al día de hoy, vos repensás en el Aconcagua, cuáles son los sonidos que te vienen a la mente… los recuerdos más fuertes?

Yo no lo dije pero nosotros nos tirábamos un montón de pedos, entonces, te empezás a reír del olor que hay, me entendés, y te empezás a reír de todo.

Acá te voy a poner uno en post-producción!

Jajaja.
Ah, y ronquidos. Yo ronco un montón.

Lo que más me acuerdo es el atardecer dándole sobre la cima del Aconcagua, tiñéndola totalmente de dorado. Y ver esa imagen desde el campamento base me pareció una de las cosas más hermosas que he visto.
Es sentirse capaz, de alguna manera, no? Te enseña muchísimo: a ser paciente, a ser progresivo, a no saltarte escalones… Muchísimas cosas te enseña.

Muchísimas gracias por llevarnos a esta altura.

No, gracias a vos.

Que de verdad la vida parece muy bonita desde acá.
traduzione  
Ciò che ricordo di più è il tramonto sopra alla vetta, facendola diventare completamente dorata. Mi è parsa una delle cose più belle mai viste.

Argentina, 21 dicembre 2017. Due uomini calpestano le pietre di una terra molto arida. Uno, più avanti, fissa l’orizzonte… l’altro si avvicina lentamente. Molto lentamente. Si muovono lentamente, respirano lentamente… perché siamo a seimilanovecentosessantadue metri di altitudine. Siamo in cima all’Aconcagua.

L’Aconcagua… Cos’è l’Aconcagua?

È un pezzo di roccia. Il punto più alto della catena delle Ande, che è basicamente la collisione tra due piattaforme marittime.

Cosa succede quando un incidente interferisce con un cammino felice? Con il cammino felice di una persona cara? E… se avessimo la mappa, per riportarla su quel sentiero?
In questa storia: come un semplice aiuto può trasformarsi in un grande progetto, e produrre un cambiamento che ha un impatto profondo su di… te, l’aiutante… no?


Un cambiamento di vita, un cambiamento di paradigma.

Sono Mariano José Griffouliere, alcuni mi chiamano “il pelato”, altri mi chiamano “Mariano”… e nel 2017 mi sono preparato per scalare l’Aconcagua. Ho raggiunto la vetta insieme a mio fratello Andrés Griffouliere.


Anche se l’Aconcagua è una montagna che non presenta molte difficoltà a livello tecnico, è molto, molto lontana dall’essere un trekking della domenica, no? E allora… da dove proviene tutto ciò? Come inizia il tuo rapporto con la montagna?

Ricordo che andavo ad accamparmi con mio padre, i miei tre fratelli e un intero gruppo di cugini, zii, amici di mio padre con i loro figli e così via, in mezzo alla montagna, e avevo questa connessione, no? Giocare nei fiumi, cucinare all’aperto: da bambino ho avuto molto di ciò, era come una via di fuga per tutti in qualche modo. E più tardi, nella mia adolescenza, questa componente si è persa.
Poi mio fratello, Andrés, ha ripreso il legame con la montagna. Mio fratello è un insegnante di storia. E lui ha lasciato la sua professione per “professare” la montagna, diciamo, per dedicarsi a quello.

Professare la montagna significa, nel suo caso, lavorare come guida nell’Aconcagua. E lo adora, no? Porta le persone in cima, a volte caricandosi con quaranta chili, e vive per mesi all’aperto, in un mondo di tende, pietre, poco ossigeno… Finché qualcosa… non si mette in mezzo.

Era febbraio 2017. Io ero insieme ai miei amici per giocare a calcio. Stavamo facendo una partita; la partita finisce, vado a controllare il cellulare e trovo tipo 50 chiamate perse e messaggi da tutta la famiglia, dicendo che mio fratello Andrés aveva avuto un incidente nell’Aconcagua, sulla montagna. Lo stavano portando via d’emergenza. Sono uscito, sono corso in macchina e sono andato direttamente all’ospedale.
Si scopre che aveva avuto un’ustione piuttosto grave alla mano, con la benzina. E il medico in quel momento è stato piuttosto duro, gli ha detto “guarda, probabilmente dovrai trovare qualcos’altro a cui dedicarti nella vita. Perché avere una mano inutile non va bene in quota e simili. E ancora di più senza sentire freddo o caldo alle estremità: la potresti perdere completamente.”.

Cavolo, è davvero brutto che abbia trovato ciò che gli piace fare e, a causa di un incidente abbastanza banale, abbastanza stupido, perda l’opportunità di continuare a dedicarsi a quello, no?

Il mondo ti deve cadere addosso, immagino. Che possibilità aveva in quel momento?

Dovevano prelevargli una parte della carne, dalla gamba, e mettergliela nella mano. Il processo di recupero era lungo, doloroso. Dipendeva molto da quanto si fosse bruciato, se i tendini erano compromessi o meno; se la mano gli sarebbe rimasta come un artiglio, diciamo, senza poterla muovere.

Ma anche…

Era una questione di atteggiamento.

Una questione di muovere continuamente la mano dopo l’operazione, anche se faceva molto male, per evitare la cicatrizzazione in una posizione fissa. Quindi era una questione di crederci, una questione di non arrendersi.

Io e mio padre ci siamo guardati e abbiamo detto: “Dobbiamo cercare di riportare Andrés sulla montagna il prima possibile. Fissiamogli un obiettivo. Cerchiamo di scalarla noi, e facciamoci accompagnare da lui durante tutto il processo.”.

Io in quel momento conducevo una vita estremamente sedentaria, lavoravo 14 ore al giorno davanti al computer, pesavo 20 chili in più di quanto avrei dovuto. Il cambiamento radicale che ho vissuto, per certi versi, è stato incredibile.


Quindi… Decisione presa! Non ti resta che spegnere il computer, metterti in forma e salire fino a quasi settemila metri…! E come inizi a prepararti per un obiettivo così grande?

Se vuoi fare montagna e vuoi scalare montagne, vai e scala le montagne. Questa è la migliore attività che puoi fare non solo per stare bene fisicamente, ma anche per capire come comportarti nelle diverse situazioni in cui svolgi l’attività. Se vai in montagna e non sai come comportarti, lì hai un deficit.
Noi, con mio padre e mio fratello, abbiamo iniziato un programma che era sostanzialmente allenamento in palestra, corsa o bicicletta. Il tutto ci prendeva più o meno due ore al giorno. E poi ogni fine settimana partivamo. Abbiamo iniziato gradatamente, camminando in montagne molto basse e poi facendo montagne sempre più alte.

Praticamente un anno intero dedicato all’allenamento… due ore… tutti i giorni…!

Avremmo potuto prenderla in maniera meno ossessiva, ma essendo figli di mio padre è difficile.

L’ostacolo più grande è la costanza. È non arrendersi. Poi la motivazione si mantiene in gruppo: “andiamo avanti che ce la facciamo.” Mio fratello ci ha allenato in modo da poterci far godere la montagna.
E pian piano, andando sempre più in montagna, mi sono innamorato di nuovo di quest’attività, e lì ho ritrovato me stesso.


Giorno uno. Un cartello dice: Benvenuti, Parco Provinciale dell’Aconcagua.

Iniziamo a camminare, e siamo circondati dalla vegetazione, siamo circondati da uccellini che volteggiano lì intorno, piccolissimi, che ti si avvicinano. Ogni volta che ti fermi si riempie di uccellini, che cercano quella briciola di pane che magari ti cade dal panino che stai mangiando perché ne hai bisogno.
Man mano che avanzi attraversi fiumi, ponti, fiumi in secca. Lo scorrere dell’acqua, il rumore dei fiumi è molto marcato. E all’improvviso la strada comincia a diventare sempre più deserta, anche se continua questo ruscello d’acqua che ti segue verso l’alto. Tutta la vegetazione e tutti gli animali che si vedono cominciano a scomparire, e le pietre in qualche modo diventano sempre più grandi, con un fiume che spacca in due la terra.
Il rumore dei piedi che camminano, che calpestano le pietre, più di ogni altra cosa. Le pietre che si sfregano l’una contro l’altra.
Il sole è fortissimo, non c’è ombra, non c’è un albero che ti copra, non c’è vegetazione che ti protegga dal sole. E poi a maggiore altitudine il sole si sente molto più forte. Il vento. I muli ti passano carichi di cose, velocissimi, quindi devi fare attenzione a non venire investito.

E poi finalmente raggiungi un accampamento che si trova praticamente in cima a un ghiacciaio, con il monte Aconcagua alla tua destra. C’è il campo base, che è fondamentalmente una cittadina a 4300 metri di altitudine, tutta cupole e tende. È come un piccolo paese a parte, dove si usano tantissime lingue, tanti tipi di valute, perché puoi avere il dollaro, il peso, l’euro, e persino il baratto: “ti pago con questi stivali, e tu mi porti su”.
E poi ci sono gli accampamenti in alta quota. Quindi appena arrivi entri nella cupola, ti idrati costantemente, e nel frattempo cerchi di acclimatarti un po’, esci, monti la tenda e rientri nella cupola. Dentro alla tenda si chiacchiera; ovviamente chiedi come sarà il giorno successivo. Qualcuno prepara sempre qualcosa da mangiare, o scalda il cibo, o scongela la neve per poter preparare un tè caldo. Se vai di corpo, praticamente lo fai dentro ad un sacchetto, e metti tutti i resti all’interno di una borsa che poi va in un elemento che chiamano “il caccatubo”. E se fai pipì di notte, per non dover uscire dalla tenda, la fai dentro ad una bottiglia. E chiudi bene il tappo e te la metti dentro al sacco a pelo, così ti scalda.
Si parla molto; si passa anche molto tempo in silenzio, in una conversazione più che altro interiore.
Mangi e vai a dormire, non rimane molto altro.

Ciao, buongiorno!

Ti alzi la mattina, fai colazione, sempre molta acqua, e… si ricomincia a camminare.
Man mano che sali ti controlli fisicamente, “come mi sento”, se mi sto sentendo bene in quota. Controlli tutto. Tutto quello che fai in quota lo fai piano, devi farlo con calma e lentezza.
Cercare… cercare davvero di godersi il momento presente. Che arrivi o meno in vetta, cammino e osservo ogni roccia, scatto un sacco di foto, chiacchiero con mio fratello, mi godo l’accampamento e i tramonti.
Sentivo di potercela fare, no?

E… Poi… C’è un momento in cui non restano più molte pietre, molti passi…?

Ho raggiunto la vetta insieme a mio fratello.
Le sensazioni sono contrastanti.
Un processo estremamente lungo per arrivarci, no? Un anno di attenzione nei pasti, in ciò che bevi, nell’allenamento fisico, nella perseveranza del lasciarsi alle spalle tante cose o una vita sociale… Per andare in montagna, no? E tutti questi sacrifici si riflettono in qualche modo in quel momento.
Arrivare è stata una gioia estrema, ho abbracciato mio fratello. Una gioia estrema.
Quando me lo hanno chiesto per la prima volta, un amico di mio fratello mi ha chiesto “be’, e cosa provi?”, ho risposto che in qualche modo sentivo che con iniziativa e con una certa perseveranza avrei potuto ottenere tutto ciò che volevo nella vita. Ho scoperto un mondo nuovo, un mondo all’aria aperta, con persone che vivono in modo diverso, che si relazionano in modo diverso, molto più legate alla natura. Mi descrivo come una persona che si è auto-sabotata per molto tempo, che ha fumato molto, che ha bevuto molto, che si è drogata molto e che… da quel cambio di paradigma, non solo mi prendo cura di me stesso, ma mi prendo cura anche dell’ambiente, e ho iniziato a interagire con persone molto più sane.
Ovviamente c’è stato un cambiamento estremamente profondo in me.


Non avrebbe mai potuto immaginare una trasformazione simile il Mariano di venti chili in più, lavorando davanti al computer. E credo che la domanda mancante ora, che tutti ci poniamo, sia: come sta Andrés? Come va la sua mano, dopo un anno di sacrifici così?

Mio fratello ha la mano perfetta. Gli dicevano “devi fare esercizio e muovere la mano in questo modo, così e così, tutto il giorno, una volta per ora”, e tu lo vedevi muovere la mano tutto il tempo. Se l’avesse lasciata ferma e non l’avesse mossa, la cicatrizzazione sarebbe avvenuta in quella posizione, e lui non sarebbe mai più stato in grado di muoverla. Ma, al muoverla, in qualche modo tagliava tutta la carne che gli avevano messo, e quindi faceva male. E tu lo vedevi, muovendo la mano con una lacrima che gli scendeva lungo la guancia dal dolore. Ma al giorno d’oggi ce l’ha perfetta.

Fantastico, e lui lavora ancora come guida nell’Aconcagua, quindi continua su questo cammino che gli fa molto bene. Sono passati cinque anni da questi eventi. Quando oggi ripensi all’Aconcagua, quali sono i suoni che ti vengono in mente… i ricordi più forti?

Io non l’ho detto, ma noi scoreggiavamo un sacco, quindi inizi a ridere per l’odore che c’è, no? E inizi a ridere di tutto.

Qui ne metterò una in post-produzione!

Ahahah.
Oh, e il russare. Io russo tantissimo.

Ciò che ricordo di più è il tramonto sopra alla vetta dell’Aconcagua, facendola diventare completamente dorata. E vedere quell’immagine dal campo base… Mi è parsa una delle cose più belle che abbia mai visto.
È un sentirsi capaci, in qualche modo, no? Ti insegna moltissimo: ad essere paziente, ad essere progressivo, a non saltare passi… Ti insegna un sacco di cose.

Grazie mille per averci portato fino a quest’altitudine.

No, grazie a te.

Che veramente la vita sembra davvero molto bella da quassù.